FRAZZI: TESTIMONE DEL NOSTRO TEMPO
di Leonardo Pinzauti


Per chi ha conosciuto Vito Frazzi nella sua piena vitalità di musicista e di uomo, e poi nella malinconica dolcezza del suo tramonto, avere il compito di ricordarne in breve la fisionomia di artista - quel che la sua musica e il suo insegnamento hanno significato per più di mezzo secolo nella vita musicale italiana e, in particolare, in quella fiorentina - è fatica rischiosa, e mi scuso con i tanti amici qui presenti del Maestro per questa premessa: tanto vivi e affettuosi sono infatti i ricordi che molti di noi hanno di Frazzi, che il pericolo a cui si rischia di andare incontro è quello di lasciarci coinvolgere in una specie di festa in famiglia, per quanto giustificabile, senza rendere un omaggio meditato e concreto ad un musicista che ha determinato, anche soltanto con la sua attività di insegnante, una vera e propria scuola. E in questa emergono allievi che si chiamano Valentino Bucchi, Luigi Dallapiccola, Carlo Prosperi e Bruno Rigacci, figure emergenti nel campo più propriamente creativo della musica, senza contare l'incidenza avuta da Frazzi in tante scelte di un organizzatore culturale come Francesco Siciliani, suo discepolo devotissimo e autentico protagonista nella vita musicale italiana, almeno nell'arco di un decisivo trentennio di questo dopoguerra. Ma se oggi vogliamo ricordare, nel centenario della nascita, Vito Frazzi (che vide la luce a San Secondo Parmense il 1° agosto 1888, e spirò il 7 luglio del 1975 a Firenze), dobbiamo almeno cercare di dare - a certe date e a certi incontri della sua vita e di quella di tanti di noi - un significato non soltanto sentimentale: del resto le musiche che ci prepariamo ad ascoltare, distanti fra loro più di quarant'anni e, senza dubbio, fra le più significative di una singolarissima e tormentata stagione della musica italiana del Novecento, sarebbero le prime ad apparir fuorviate e avvilite da una cornice che sapesse soltanto di ricordi e di emozioni giovanili; e Frazzi, invece, anche quando le sue musiche dovessero suscitare qualche perplessità e ridursi a puro e semplice documento, è musicista mai generico e approssimativo, e si realizza artisticamente con un rigore che, a volte, sembra perfino contrastare con la sua cordialità di uomo e con quel cliché del musicista allegro e scapigliato, ironico e scanzonato, che ci hanno tramandato alcuni suoi amici illustri, e tanto diversi da lui, come ad esempio Giovanni Papini. Frazzi, è vero, non nascondeva (e anzi sembrava menarne vanto, in un'epoca minacciata dai dilettanti in veste di "specialisti", oltre che da seriosi discettatori sulla "crisi" del linguaggio musicale novecentesco, che, però, si dimostravano digiuni della versatile bravura e della vera e propria manualità artigiana dei musicisti di un tempo) di essere stato pianista su un piroscafo e di aver accompagnato Petrolini in "Gastone" e in "Ho sognato i salamini e me ne vanto"; e io stesso collego le sue prime immagini al curioso contrasto che sembrava caratterizzare il suo esser musicista pratico, a contatto con noi, allievi di Conservatorio, quando ci spiegava, leggendola a quattro mani con Bruno Bartoletti, la "Militare" di Haydn, e poi, a lezione finita, si metteva a scherzare con la musica, e canterellava, appunto, accompagnandosi al pianoforte (con quel suo curioso modo di tener le dita distese sulla tastiera, che forse erano un lascito della sua prima pratica di organista) proprio le canzoncine di Petrolini. Direi però che quasi non c'è rapporto fra la sua giovialità di uomo e la rigorosa esattezza del suo esser musicista, anche se le sue battute di spirito e quella continua voglia di giocare e di apparire esuberante gli avevano valso l'appellativo - glielo aveva dato proprio Papini - di "Maestro Baccàno". Appartenente ad una generazione che ancora si nutriva della religiosità artistica introdotta nel teatro d'opera da Wagner e da Verdi, ma incuriosito, d'altra parte, da un alternarsi di mode musicali che, fra i flussi e riflussi, portavano alla ribalta Strauss e Debussy, Puccini e Schoenberg, Malipiero e i primi seguaci della "Scuola di Vienna", Frazzi si chiuse di fatto in una sua solitudine musicale che era tutto il contrario dell'immagine suggerita dal soprannome papiniano: fu per questo catalogato, superficialmente, fra i tradizionalisti, e lui forse era disposto ad accettare questo incasellamento, ma soltanto polemicamente, perché di fatto il Frazzi giovane che giungeva nel 1912 a Firenze, come insegnante di pianoforte complementare, non a caso fu considerato subito un "futurista" e rispecchiò le inquietudini linguistiche del suo tempo, senza lasciarsi intruppare in scuole codificate, ma anche lui proponendo originali ricerche sul linguaggio armonico e dando organica giustificazione teorica (con le tante volte ricordate "scale alternate") a molti fenomeni che sembravano esser nati soltanto nel segno dell'arbitrio e della provocazione. Sembra insomma non esserci rapporto fra il cliché del "Maestro Baccàno" e la dolcezza e il senso drammatico di un mondo musicale conquistato palmo a palmo, a volte chiuso in sé sul filo di un distaccato nitore formale, a volte gravato da una persistente malinconia, ma mai disposto a cedere a forme di generico sentimentalismo: ché anzi - e ne abbiamo una riprova magistrale proprio nei Canti popolari toscani che stiamo per ascoltare - c'è quasi un senso di ironico e affettuoso distacco nel nitore - che potremmo dire, per intenderci, "raveliano" - del suo modo di comporre. Per questo, dunque, anche se sarebbe certamente più facile - e però fuorviante - non si può rendere omaggio alla memoria di Frazzi comportandoci come certi mascagnani che, credendo di allargare la cerchia di simpatie intorno al loro idolo musicale, collegano le sue opere alle sue battute di spirito o alla sua bravura nel giocare a scopone: in fondo, a ben guardare, fra tanta musica di Mascagni e gli aneddoti che si raccontano del maestro livornese non c'è contraddizione, mentre Vito Frazzi, pur così deciso e pungente nei suoi giudizi (e io ricordo ora il senso di sorpresa che suscitavano in me certe osservazioni negative sullo stesso Strauss, per non dire su Schoenberg), non avrebbe mai osato affermare, anche soltanto per il gusto di fare una battuta, che si sarebbe messo a scrivere sinfonie il giorno in cui si fosse accorto di non avere ispirazione... Frazzi, invece, mentre l'ufficialità della cultura italiana aveva ancora per perno la vita del teatro d'opera, nel 1922 offriva le linee tese e meditative del Quintetto con pianoforte, che certo si presterebbe ad utili raffronti, il giorno in cui qualcuno si decidesse a riscrivere la storia del Novecento musicale italiano, dove non tutto era "provinciale", come andavano dicendo i musicisti della cosiddetta "generazione dell'Ottanta", e dove le sollecitazioni creative non passavano necessariamente soltanto dalla Vienna di Schoenberg o dalla Parigi di Debussy e di Ravel, e anzi tentavano una "via italiana" che non era necessariamente quella di Puccini, pur avendo presente la realtà di un mondo musicale ormai tendenzialmente senza confini. E anche negli anni successivi, quando buona parte della musica sembrava essere nel segno del neoclassicismo, con grande mèsse di Toccate, Partite e Ricercari, Frazzi continuava a percorrere con coerenza la sua strada solitaria, con mestiere sempre più raffinato, ma anche con un crescente bisogno di chiudersi in se stesso: il successo del Preludio magico del 1938, così estraneo a qualsiasi meccanicità formale e a qualsiasi gusto di recupero intellettualistico di antiche forme, e anzi fantasiosamente rapsodico e allusivo a fatti teatrali, conferma del resto una sorta di sottintesa polemica con tutte le mode correnti; e contro le mode, certo, è la fatica stessa che porta Frazzi nel mondo di Re Lear (1939) e molti anni dopo, nel 1952, in quello di Don Chisciotte, quando sembrava addirittura che non si dovesse più nemmeno parlare di teatro musicale, specialmente dopo la chiusura di quel sarcofago dell'opera che l'incompiuta Turandot di Puccini ha rappresentato. E invece - ricorrendo almeno per un attimo ad un ricordo personale - tante pagine di Don Chisciotte mi sono rimaste nella memoria per la loro sottile e comunicativa semplicità, per il senso di poesia con cui raccontavano le storie più segrete del Don Chisciotte, nel momento in cui Frazzi si era deciso a confessare la tanta malinconia, con cui riandava alle troppe e contraddittorie esperienze musicali del nostro tempo -. Ma è proprio pensando a questa solitudine diventata concretezza di fatti musicali che la figura di Frazzi musicista ritrova, pur nel clima consumistico di oggi (che ha travolto tanti scomparsi, e fra questi perfino alcuni dei più illustri, da Malipiero a Dallapiccola), un suo valore emblematico: tralascio la sua enorme mèsse di trascrizioni, la bravura con cui si cimentò in tante musiche di scena originali, la versatilità con cui curò traduzioni ritmiche (ad esempio quella famosa di Guerra e pace di Prokofiev); ma non tralascio, ovviamente - e lo considero il modo migliore di prepararsi all'ascolto della sua musica - una constatazione da cui ho preso l'avvìo per questo mio intervento: esiste una scuola di Frazzi dalla quale sono usciti musicisti diversissimi fra loro come Bucchi, Dallapiccola, Prosperi e Rigacci e che certo già di per sé costituiscono un singolare primato numerico. Ma non è da credere che si tratti di un caso: se potessi suggerire uno studio, una tesi di laurea, sulla figura di Vito Frazzi compositore, consiglierei di partire da questa constatazione, per ripercorrere a ritroso non la storia di un apprendistato tecnico (che fu certamente nel segno di una straordinaria eccellenza), ma quella di una fioritura di fantasie che non sarebbe stata possibile se non attraverso le occasioni offerte da una singolare fantasia, quella appunto di Frazzi, maestro vero e testimone accorato e sottile delle molte inquietudini del nostro tempo.

L. Pinzauti - Frazzi testimone del nostro tempo.
(da: Omaggio a Vito Frazzi 1888 - 1988)